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La mafia siamo noi


(tipica struttura non-finita, anche nota come ecomostro)

Appena qualche giorno fa leggevo un articolo nel quale si parlava del deturpamento ambientale calabrese derivante dall’impianto delle pale eoliche, un affare milionario nel quale, come già era emerso precedentemente, si è tuffata a capofitto la locale malavita organizzata. Chi aveva postato quell’articolo lo commentava additando, coerentemente con quanto trattato e riportato nel pezzo di giornale, la mafia quale causa della rovina del territorio regionale, in quella circostanza da un punto di vista squisitamente ambientale. Tutto molto corretto, nulla da eccepire, non fosse che per una lieve sfumatura, una certa sottigliezza sulla quale credo valga la pena soffermarsi e che personalmente mi ha dato non poco modo di riflettere.

Anche in questa circostanza infatti la mafia, additata non senza cognizione di causa, veniva considerata una specie di corpo esterno, estraneo, per nulla prossimo o contiguo al “normale” tessuto civile e sociale calabrese, qualcosa a parte insomma, qualcosa a se stante, un po' come se il territorio regionale non fosse già stato ampiamente deturpato senza il bisogno di alcun intervento mafioso. La mafia, dunque, stupra la Calabria, ma la restante parte dei suoi abitanti cosa fa? Usando in quella circostanza, come in centinaia d’altre, la parola mafia, ci si rivolgeva come a una specie di nemico ben identificabile e definito, una specie di cellula tumorale molto ben circoscritta e delimitata nello spazio. Ma se così fosse, se la mafia fosse veramente riferibile a un insieme ben definito di soggetti deviati, non basterebbero una serie di doverose sedute chemioterapiche al fine di debellarla completamente? E allora banalmente mi domandavo: per quale motivo non si ha la capacità di eliminare questo cancro se, io per primo, ogni qual volta lo si nomina, lo si chiama in causa, al contempo lo si avverte, lo si percepisce come un evento, un fenomeno a se stante e molto ben localizzabile?

La risposta mi è risultata alquanto immediata, logica, lineare, sintetizzabile in poche parole: la mafia, a ben vedere, siamo noi, ognuno di noi, ogni cittadino nato e cresciuto nei luoghi nei quali il fenomeno mafioso ha avuto modo di crearsi e prosperare. Cito dunque da Wikipedia: “Il termine mafia indica una particolare e specifica tipologia di organizzazione criminale, dotata di peculiari caratteristiche”. Fintanto che si continuerà a pensare alla mafia in questi termini saremo noi stessi le prime vittime inconsapevoli di una sorta di deresponsabilizzazione circa il fenomeno mafioso stesso, e questo in base a un preciso principio socio-antropologico: il fenomeno mafioso, sia esso ‘ndranghetista, camorrista o di qualsiasi altra connotazione specifica, non nasce né per caso né in ogni luogo, ma solo in specifiche zone, dalle quali, come ben sappiamo, tende poi a estendersi altrove, cercando spazi di possibile corruttibilità per evidenti fini di tipo affaristico-illegali.

Solo alcuni sono infatti i territori nei quali ciò che oggi chiamiamo ‘Ndrangheta, Camorra e Cosa Nostra sono sorte e si sono insediate nel tempo, ergendo veri e propri imperi criminali ed economici, cosa del resto possibile solo ed esclusivamente grazie a un particolare substrato sociale, a un certo tessuto umano e culturale che ne è a tutti gli effetti il vero e proprio committente, l’occulto e oscuro mandante. “Quali sono le ragioni della mafia?” Si chiedeva lo studioso F. Tassone nel volume ‘Le ragioni della mafia’ (Jaca Book, 1983), così proseguendo: “Per trovarle occorre uno sguardo che provenga dall’interno della società meridionale, e sia frutto di un lavoro politico teso alla sua maturazione e trasformazione”. Più che consapevoli del fatto che quanto finora sostenuto, specie dopo essersi abituati, nei secoli, a pensarsi vittime, e in nessun modo artefici, del fenomeno mafioso, non sia facilmente digeribile, siamo altresì convinti che una più che opportuna, doverosa, necessaria riflessione, così come lo stesso volume ‘Le ragioni della mafia’, siano intenzionati a rivolgersi “soprattutto ai meridionali, perché individuino – scrive Tassone - tutte le cause della profonda malattia che li travaglia, del cui mortale procedere la febbre mafiosa rappresenta una delle tappe più vistose, con severa critica di se stessi e della loro storia pregressa”.

Ebbene, pare proprio di capire che se questo assurdo fenomeno esiste, lo si deve proprio al tessuto sociale sul quale sorge, ossia una società per interi millenni vessata da continue dominazioni di ogni genere, da continue violenze, stupri e spargimenti di sangue che hanno fin nelle viscere macchiato le popolazioni del meridione d’Italia: dallo splendore ellenico ci si è visti, nel corso del tempo, ridotti a subalterne colonie di romani, bizantini, arabi, normanni, francesi, spagnoli e chi più ne ha più ne metta, in un’interminabile sequenza di soprusi che hanno ridotto le genti meridionali a nutrire, come profondo e intimo fatto culturale, antropologico, la più profonda paura dell’altro da se, fosse anche il vicino più prossimo. Una società disgregata, totalmente frammentata, per nulla unita e coesa, rabbiosa dunque, laddove, nel dialetto calabrese, non a caso il modo di dire “spagnarsi”, in riferimento agli ultimi grandi dominatori precedenti la cosiddetta unità d’Italia, sta proprio a indicare l’aver paura, il nutrire timore.

Un’intera società, visti e considerati i precedenti storici, profondamente, intimamente mafiosa, fondata su quella stessa paura che genera e alimenta l’infausto fenomeno criminale. Una società, quella meridionale e nella fattispecie calabrese, che trova poco o per nulla strano circondarsi di ecomostri e costruzioni abusive non-finite (la sola Calabria, stando ai dati noti, possiede quasi il 15% delle costruzioni abusive di tutto il paese), ma che poi improvvisamente si sveglia, scagliandosi contro quella strana entità ritenuta a se stante e nota come mafia, quando le pale eoliche giungono a deturpare il proprio territorio. Eh no, se così fosse sarebbe fin troppo semplice, riduttivo. Forse che le centinaia o migliaia di strutture non-finite, gli ecomostri dall’insostenibile bruttezza, non hanno, senza peraltro produrre alcun tipo di energia, già ampiamente provveduto a deturpare i paesaggi calabresi? E chi ha eretto simili offese per l’occhio umano oltre che, ovviamente, per il territorio? Chi si è messo a costruire per poi lasciare puntualmente la struttura incompiuta? La mafia? Ebbene no, nessuna cosiddetta e ben circoscrivibile organizzazione criminale, bensì la comune gente di Calabria, quei mafiosi che intimamente siamo senza sapere d’esserlo.

(la striscia di 35 ville abusive che tagliano in due il parco archeologico di Capo Colonna, KR)

Già, perché mafioso, a ben vedere, è chiunque non porti rispetto verso l’altro da sé, chiunque non rispetti gli altrui spazi, chiunque, per scendere nel quotidiano, appena scatti il verde al semaforo ritenga giusto, opportuno, iniziare a clacsonare chi in un nano secondo non ha avuto la prontezza di schiacciare l’acceleratore. Non è forse violenza questa? Il fatto di essercisi abituati, assuefatti, non ne allevia certo tutto il peso specifico, non ne ridimensiona la portata, perché sono i piccoli gesti, gli “innocui” atteggiamenti che, sommandosi l’un l’altro in una cattedrale di piccole azioni incivili, creano l’ambiente adatto, fertile affinché chi di dovere si organizzi per imporre la propria personale legge della giungla.

Esiste un principio semplice, per il quale chi vuole il cambiamento deve essere pronto a incarnarlo: fintanto che nei luoghi di mafia, abbandonando il timore e riconquistando fiducia e serenità, non si avrà rispetto del prossimo, dell’ambiente, delle istituzioni, delle città e, prima di tutto, di se stessi, non si potrà sperare nell’estinzione della malavita organizzata, che per esistere, un po' come l’heterodon nasicus, il serpente che divora se stesso partendo dalla coda, non fa altro che trarre nutrimento dalla quella stessa paura che, generando inciviltà, muove e anima ogni organizzazione mafiosa. A Firenze come a Bologna, a Genova come a Torino, in Svizzera come in Germania non si registrano, ad oggi, autoctoni fenomeni mafiosi, e questo perché, molto semplicemente, trattasi di popolazioni poco o per nulla interessate da secolari fenomeni di dominazioni e soprusi, popolazioni dunque, di conseguenza, meglio educate, civili, meno intimamente mafiose.

È mafioso chiunque non rispetti il prossimo, da intendersi non solo come il proprio vicino di casa, ma come l’ambiente, la cittadinanza, le risorse naturali, gli animali. Gli animali, già, come quel meraviglioso cane, Angelo, brutalmente assassinato da quattro giovani calabresi, gli stessi che, con atteggiamento mafioso e col complice silenzio o assenso di mezzo paese, volevano prendere la pala e dare una bella lezione alla giornalista che osava chiedere spiegazioni. Il gioco è semplice, è lo specchio della mente: ciò che vediamo non è altro che il riflesso di ciò che siamo, di ciò che abbiamo dentro di noi. Occorre accettarlo, e correre ai ripari.

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